Storie d’Autore: mini intervista ad Alberto Di Gilio
Alberto Di Gilio, nato a Parma nel 1968 e residente a Vigonza (PD).
Ricercatore storico, unisce alla passione per il primo conflitto mondiale la costante attività di ricerca documentale nei maggiori Musei, Biblioteche ed Archivi storici italiani.
Sul tema della Grande Guerra ha al suo attivo numerose opere ed ha tenuto presentazioni e conferenze in Italia e all’estero. Oltre ad aver scritto articoli per riviste specializzate e partecipato in qualità di curatore a mostre ed eventi sul tema, è stato invitato ed intervistato dalla testata “Repubblica”; alcuni suoi interventi sono stati inseriti nella collana di Dvd sulla Grande Guerra, a cura del giornalista Paolo Rumiz.
Per i tipi di Rossato ha scritto:
“Grande Guerra. La Lettera Svelata. Monte Ortigara: 19 giugno 1917. La vera storia di Adolfo Ferrero” in collaborazione con Leonardo Pianezzola;
“L’Offensiva di Primavera. 1916 Strafexpedition”;
“Gli Ultimi Giorni. L’Armistizio di Villa Giusti. La Vittoria. La fine di un Impero”
Contatti: alberto.digilio@libero.it
Come nasce la tua passione per la storia in generale e per la Grande Guerra in particolare?
La Storia si ama a prescindere dal periodo storico in cui ci si imbatte, se la si ama davvero. Accostandomi all’esperienza storica della Grande Guerra, il mio approccio è stato all’inizio lento e graduale. I luoghi legati a quell’epopea, di cui i nostri territori conservano innumerevoli resti e testimonianze, hanno rappresentato certamente uno stimolo. Ho accompagnato fin da subito le mie visite alla lettura dei grandi classici sull’argomento, primi fra tutti Lussu e Weber. E per chi, come me, ama leggere, è stato in seguito un continuo momento di lettura e approfondimento, alla ricerca di nuovi avvenimenti e racconti che mi accompagnassero lungo le mie svariate escursioni. All’esercizio della scrittura sono arrivato d’istinto, poco per volta, senza fretta. Una passione nata con entusiasmo, mettendomi alla prova.
Nei tuoi libri, accanto ad una rigorosa ricerca storica, vi è sempre un tocco di originalità che lascia emergere la sfera umana della vicenda storica e dei suoi protagonisti. Ad esempio nel libro” Gli Ultimi Giorni” lasci emergere, attraverso le testimonianze arrivate fino a noi, i diversi punti di vista dei componenti le due commissioni d’armistizio. Puoi parlarci di questo aspetto del tuo lavoro di storiografo?
Un buon libro, per dirsi veramente tale, deve coinvolgere il lettore. L’avvenimento storico, la vicenda militare, dalla battaglia più complessa ed articolata fino al singolo avvenimento d’arme, rappresentano ai miei occhi lo sfondo, la cornice per così dire, attraverso cui si muove il vero protagonista: l’uomo. Con le sue gesta, il suo pensiero, il suo muoversi nella “cultura” del tempo. Certo, talvolta non è semplice contestualizzare un avvenimento. Le fonti mancano, o possono risultare frammentarie. Ma è il lavoro di ricerca storica che permette spesso di disseppellire singoli frammenti così importanti di un uomo, frutto di un “intimamente vissuto”. Con risultati spesso inaspettati. Raccontare questi aspetti richiede certo ricerche storiche, approfondimenti, un “metodo” in fin dei conti, ma per me tutto questo deve saper regalare emozioni verso chi legge. Perché non sia un solo “esercizio di storiografo”, ma al contrario un momento per comprendere appieno cosa vissero e provarono giovani soldati di cent’anni fa.
A quale ricerca storica, e, di conseguenza, a quale libro sei più legato?
Indubbiamente “La lettera svelata” ha rappresentato un’indagine e un’esperienza unica nel proprio genere, vissuta come un autentico rompicapo storico. Una sorta di racconto, attraverso il quale – come ho detto poc’anzi – sono stati disseppelliti “frammenti” di un passato così lontano, per giungere infine, dopo innumerevoli colpi di scena, alla verità. Una verità inaspettata, svelata a distanza di cent’anni. Un libro certo non scontato, lontano dai soliti canoni di libri di storia militare. In grado di entusiasmare chi l’ha scritto, in una sorta di “caccia al tesoro”. Ma allo stesso tempo capace di entusiasmare anche il lettore, accompagnandolo per mano in una sorta di “giallo della Grande Guerra”.
È in uscita un volume su “I dimenticati di Caporetto” ovvero sui prigionieri di guerra che durante la prima guerra mondiale furono deportati nei lager dell’Europa dell’Est e del loro rientro in patria (per chi riuscì a ritornarci). Puoi darci qualche anticipazione?
Sulla prigionia dei soldati italiani nella Grande Guerra i dati che la Storia ci ha consegnato sono davvero impressionanti: dei circa 600.000 uomini fatti complessivamente prigionieri tra il 1915 e il 1918, pressoché la metà fu catturata durante la battaglia di Caporetto, per poi essere trascinata negli innumerevoli campi di detenzione disseminati nei territori dell'Europa Orientale, sovente descritti negli stessi diari e memoriali come “dimenticati da Dio”. Il libro, grazie anche a un diario di prigionia inedito, intende dare oggi una lettura di quel grande evento che fu il “dopo Caporetto” da un angolo visuale differente. Sempre prediligendo, come sono solito fare, il lato umano. Perché attraverso la vicenda individuale di un prigioniero possa emergere quello che fu il grido di dolore collettivo di quei tanti scampati all'inferno della guerra e dei campi di prigionia. E ricordare, una volta di più, i patimenti. Non solo di coloro che riuscirono a far ritorno a casa, ma anche di chi, invece, quel ritorno a casa non fece, morto di stenti in territorio nemico, ma soprattutto, inaspettatamente e vergognosamente, per mano di una Patria matrigna.
Che senso ha, a tuo avviso, nel 2019 e a centenario appena concluso, affrontare ancora tematiche legate alla Grande Guerra?
Un centenario appena concluso, con tutte le manifestazioni e celebrazioni cui abbiamo assistito, non basta per ricordare quella che fu, e ciò che soprattutto rappresentò, la Grande Guerra. È necessario conoscerla ancora, approfondirne nuovi aspetti e toccare nervi ancora scoperti, per comprenderla appieno nei suoi aspetti più profondi. I libri, gli articoli, i documentari, devono ancora farci riflettere. Riferendosi a soldati mandati nelle trincee e caduti al fronte, il compianto Ermanno Olmi disse che essi “… andarono al macello senza nemmeno sapere per quale ragione venivano sacrificati in un conflitto nel quale il progresso tecnico mostrava il suo volto più oscuro. Chiamati alle armi, si sono trovati a dover obbedire senza discutere, come servi della gleba…”. Ecco, continuare a testimoniare la Grande Guerra è il solo modo per non tradirne la memoria, e soprattutto per non tradire la memoria di quegli uomini, perché va a tutti i costi preservato quello spirito di sacrificio e quella forza d’animo non comuni, che non devono andare perduti con il passare delle generazioni.